Un saggio realizzato con i video usati come prove nel processo presso la Corte penale internazionale contro gli autori di violenze sessuali durante la guerra nell’ex Jugoslavia, il primo a considerare lo stupro, la tortura e la schiavitù sessuale crimini contro l’umanità. Un film fatto esclusivamente di immagini d’archivio e testimonianze che diventa esso stesso una forma di memoria: sfuggente, fluida, priva di direzione. Le violenze e le torture subite da migliaia di donne nel cosiddetto “campo di stupro” di Foča, un villaggio della Bosnia ed Erzegovina, diventano la nostra memoria collettiva superando lo spazio e il tempo.
Mi piace immaginare che ogni film sia una possibilità in più per lavorare contro la violenza e l’assurdità dei tempi, del sistema e del mondo ingiusto in cui viviamo. Alcuni luoghi sono più oppressi di altri, e per me è sempre più chiaro come proprio noi che veniamo da questi luoghi siamo in realtà quelli che hanno maggiori possibilità: la sopravvivenza è inscritta nelle nostre esperienze. Noi abbiamo la memoria della trasformazione e dell’adattamento; l’esperienza della solidarietà. Abbiamo vissuto tempi diversi da questi, in cui il desiderio collettivo era sentito in modo fisico, al contrario del vuoto che ora ci circonda. Sono arrivata a questa consapevolezza dopo anni di lavoro in contesti in cui noi “sottosviluppati” eravamo educati a rispettare gerarchie imposte da altre società “civilizzate”. La liberazione da tutto questo è al centro del mio lavoro: possiamo prendere posizione e condividere le nostre conoscenze come sopravvissuti. Fare film da questa posizione mi permette di lavorare contro l’idea del nostro passato come una trama lineare e gerarchica di vittime e oppressori. Trovo sempre più forza e significato in questa possibilità di creare con il cinema nuove soggettività, nuovi saperi, nuove potenzialità.